CRITICA DI MARTINA CAVALLARIN (2014)Annalù

“Nella sua opera c’è qualcosa di classico – nell’attraversare la storia dell’arte- e di contemporaneo – nella mescolanza di rituali, simbologie, fasi e ricorsi, desiderio e bisogno, tempo smarrito e ripercorso, disponibilità ideologica e apprendimento di una rinnovata spiritualità -.”

“Non è un’immagine che cerco. Non è un’idea. E’ un’emozione che si vuole ricreare, l’emozione di volere, di dare e di distruggere.”
(Louise Bourgeois)

Ci sono artisti che adoperano codici che si spostano all’interno di una temperatura più poetica, altri artisti i cui transiti sono a clima più chirurgico, altri artisti ancora che vivono di dissonanze da misurare calibrate all’interno di un’armonia che sposta l’accento da un atteggiamento all’altro.

Si tratta di misurarsi attraverso opere che indagano più materiali e la cui griglia geometrica spazia dall’orizzontale al verticale, con continue intercessioni. Annalù si dedica costantemente a quelle intercessioni producendo un’opera che progredisce nel tempo in quanto vero e proprio luogo fisico in cui compiere delle misurazioni, mettere in gioco delle costanti costituite dalla sapienza con la quale sceglie e studia i materiali, li sperimenta e li usa per creare lo scheletro dell’opera, ma non solo, per avvertire una dichiarazione, svelare che tra gli anfratti e le pieghe si legge lo statuto di un mondo e si alternano i protocolli del pensiero.

Per il lavoro che si svolge dall’installazione a terra sino alla parete gli elementi, che al di là della pura rappresentazione costituiscono la concretezza dell’immagine, sono i simboli della visibilità, con i loro valori: luce e ombra, opacità e purezza, reale e virtuale, rigore e pulizia, leggerezza impalpabile contro la pesantezza della materia. Principi che non sfuggono alla catalogazione di alto, basso, sinistra, destra. Quando l’orizzontalità del pavimento viene a incontrare l’angolo di elevazione verso la parete s’indicizza un meccanismo dello schema parallelo e perpendicolare per il quale la sollevazione lungo l’asse ascensionale si colloca nel governo di griglie, rette e curvature in progressione.

Tale paradigma negli anni Settanta era criticato dalla Nuova Sinistra costituita tra gli altri da Max Horkhmeier e dalla Dialettica dell’illuminismo di Theodorn Adorno (1) che stigmatizzavano simile atteggiamento come un controllo del potere che genera sistemi politici totalitari e fascisti. Ora, in un’epoca in cui vanno scomparendo le catalogazioni linguistiche e i registri sono certamente meno politicizzati, ma non meno civili, tali traiettorie costituiscono la base di rappresentazione di un’erranza e una precarietà che sono stigmate della società contemporanea di cui l’arte non solo tiene conto, ma ne manipola i segni e riadatta i posizionamenti. Annalù proclama di continuo la sua radice radicante (2) costruendo un lavoro artistico che, più si va a sedimentare prendendo forza e consapevolezza, più si rivela nella liquidità e impermanenza delle installazioni e sculture che lo rappresentano.

Nella sua opera c’è qualcosa di classico – nell’attraversare la storia dell’arte- e di contemporaneo – nella mescolanza di rituali, simbologie, fasi e ricorsi, desiderio e bisogno, tempo smarrito e ripercorso, disponibilità ideologica e apprendimento di una rinnovata spiritualità -. Traspare nel processo una sorta di celebrazione delle passioni umane, l’esaltazione di un’ansia di conoscenza, la complessità di dividere il bene dal male e la problematica morale. Si sente amplificata l’ossessione dell’idea che non si scioglie nell’accettazione dei rimandi trasversali, ma anzi fa dei singoli racconti la forza di tutta una produzione che si snoda sotto il segno di un progetto unitario. Il risultato finale, il lavoro finito, le opere, hanno la stessa valenza del loro raccontare concettualmente dei passaggi, spiegare con l’impatto visivo ciò che nella filosofia si esplora con le parole. Con la sua natura evocativa il lavoro offre una dimora alle cose che non sono semplice accordi e incroci, o forme anatomiche, superfici pulite compenetrate nella resina, compresenze di piani sovrapposti, il movimento e l’attesa, la leggerezza, il tempo. Il confronto si basa sulla dicotomia degli elementi che congiungendosi tra loro costituiscono la “macchina celibe”, l’opera nella sua totalità, con coordinate che appartengono ai principi maschile e femminile che nell’androginia sono conservate ed elette sotto un unico segno e un unico corpo.

Inoltre il lavoro trasmette un’interessante carica erotica, anch’essa riferibile al Grande Vetro, un piacere che si riflette nello sguardo di chi vi si pone davanti e che da esso trae forza non essendo, la produzione e il processo, esenti dal bisogno di comunicazione con lo spettatore. Nelle installazioni c’è una sorta di lentezza, come se il transito fosse la fase intermedia del viaggio, tempo lungo o infinito tra la partenza e l’arrivo. Un tempo privilegiato dell’attenzione e della ricognizione, un tempo che non si può definire interiore o esteriore all’opera la quale proietta e ascolta, nella funzione centrale dello sguardo e della fruizione. Tale liquidità è possibilità e fallimento, intercessioni di tessiture continue di legami tra plasticità e scorrimento, sistematicamente smontate e ricomposte con meccanismi della percezione e del desiderio. Si tratta di una sorta di vetrina animata dai rispecchiamenti passeggeri, in dimensione armonica, mescolando riverberi e riflessi del mondo circostante per abbellirne i contorni. La tensione è tra la pienezza e la vacuità dei campi cromatici, tra materiale stratificato su doppia superficie e segni incisi per dare vita a costruzioni. Il fallimento separa i piani e li ricongiunge idealmente nella visione della brama di un risultato mai raggiunto e continuamente inseguito con la perseveranza e la spinta di una necessità e un bisogno. Dove la materia è tagliata e separata e sovrapposta, lì l’immagine ricongiunge. Il discorso del visibile e dell’invisibile trova in questo caso una componente spiritualista che si arricchisce di suggestione quando entra in gioco l’ombra frammentata dal tremolio della materia che scompare e il suo moltiplicarsi in un’esecuzione modulata e calibrata.

La ricerca degli elementi e delle strutture più adatte a esprimere la concezione del mondo hanno portato l’artista a selezionare un vocabolario quasi “ascetico”. Ciascuno degli elementi dell’insieme viene scelto innanzitutto per abolire l’arbitrario e disporsi così, senza mediazioni, più vicino all’universale. In questo modo Annalù appaga le attese dell’esteta e alimenta e soddisfa la matrice più concettuale del lavoro. Le installazioni si possono offrire come un vero e proprio posto per oggetti, questioni, corpi, o formare delle linee programmate rese sensuali dalla levigatezza, la sensazione piacevole di cercare impressioni tattili, tese tutte all’epifania della propria essenza, al disvelamento della propria verità. Per entrare in questo occorre applicare un procedimento a togliere, partendo dal peso ed estraendone materia, giocando a una sottrazione che rende pulita e quasi chirurgica l’opera, sebbene sia fatta di strutture pesanti o contenga il percorso di elementi fluidi o sveli la ripetitività della combustione o sia riempita e vivacizzata dal colore dei pigmenti colorati. La facoltà tangibile del lavoro è qualcosa che investe immediatamente lo spettatore assieme al senso della luce, una luce che si perde nel fondo del pozzo del pensare, o si moltiplica nello specchiarsi degli elementi. L’opera forma uno spazio unitario e ideale, circoscritto concretamente ai confini dei materiali, ma che dilaga come visione un po’ nello stomaco e un po’ nella testa, investendo i sensi tutti.

L’opera di Annalù è capace di emozionare. E riconoscendosi nel processo contemporaneo meccanismi marcatamente duchampiani, vorrei citare un’affermazione assolutamente provocatoria di Marcel Duchamp volta a sottolineare il rapporto vitale tra opera e fruitore nel tempo del consumo dell’opera: “Nessun quadro ha una vita attiva superiore ai trenta o quarant’anni… Non mi importa se ciò sia vero, a me serve per fare la distinzione tra arte viva e storia dell’arte. Dopo trenta o quarant’anni il quadro muore, perde la sua aurea, la sua emanazione, o che altro la si voglia chiamare. A quel punto o viene dimenticato o entra nel purgatorio della storia dell’arte”.

Tale processo è governato dall’urgenza dell’artista che si muove su un binario più libero quando crea opere per un progetto espositivo personale, o su due vettori determinati da richieste di installazioni che nascono per abitare un luogo, per celebrare un tema, per abbracciare una comunità, per manifestare una ricorrenza. Qui ci troviamo di fronte alla pratica del Site Specific e a quella del Time Specific. Il Site Specific prevede opere create per un luogo, pensate e costruite attorno a un sito, concepite all’interno di un disegno nel quale lo spazio di appoggio e abitazione dell’opera è elemento intrinseco e fondamentale, dispositivo necessario. Nel caso delle sculture elaborate, potenti, complesse di Annalù l’opera si abbandona ad ambienti saturi di storia e religione – allora ecco comparire una Madonna Immacolata o un Cristo crocefisso – composizioni orchestrate tra differenti elementi e mutevoli materiali come le resine, il cemento, il pulviscolo, la luce, la polvere, il bronzo fuso. Attraverso questi materiali effimeri l’opera rapporta e trasporta codici e micro-informazioni che moltiplicano funzioni, dimenticanze, dubbi. Il Time Specific è una pratica contemporanea diffusa in un contesto sociale in cui tutto viene documentato e registrato per una società dei ricordi a basso tasso di analisi. L’artista ha il compito di raccogliere i segni che trova nel mondo e ricollocarli praticando spesso in molti casi un lavoro di archiviazione per una pratica della memoria che resiste all’opera stessa, la cui sussistenza proseguirà oltre l’esistenza fisica dell’opera. Se esistono pratiche artistiche che si riferiscono alle funzioni del segno, o alle menzogne di un sogno, o alla conquista di un problema, quello aspettato e irrisolvibile dell’arte, il lavoro di Annalù le incanala attraverso una ricerca che utilizza materiali destinati alla sparizione e all’annientamento tanto quanto alla durata e alla presenza possente e ai quali l’artista veneta affida il principio della relazione, il compito della responsabilità, la funzione della comunicazione. Annalù è in costante dialogo con la caducità del tempo nel quale le sue sculture dimorano, con i brandelli minuscoli e traumatizzati da un passato segreto per un’allegoria della fugacità della condizione umana come osmosi continua tra lontano e vicino, in equilibrio tra presenza e ricordo, riconoscibile e irriconoscibile, temporalità e atemporalità delle costellazioni del cosmo come delle particelle degli atomi. Si tratta di un lavoro basato su percorsi cosparsi d’incidenti e piccoli indizi. L’artista ci incanala in battaglie improntate sulla resistenza, su qualcosa che sempre rifugge le mezze verità perché non dicono abbastanza, in forme che esistono e che hanno armature solo interne, quelle delle teorie e delle filosofie su cui si fondano, ma corpi instabili che cadono e risalgono. L’artista affoga e ci lascia affogare nell’opacità, in un significato che va traghettato immediatamente in un altro significato ancora, ma senza mai perdere di vista la struttura portante: “Come la nervatura produce la foglia dall’interno, dal fondo della sua carne, così le idee sono la testura dell’esperienza; il suo stile, dapprima muto, poi proferito. Al pari di ogni stile (le idee) si elaborano nello spessore dell’essere” (3.). Lo strumento principale di tali pratiche artistiche è già una dichiarazione di mistero, una composizione manuale che contiene in sé un’impronta di matrice molto concettuale. Nella pratica artistica di Annalù l’elemento plastico, l’opera, va errando per approdare a una sorta di estensione tramite la traccia, il senso dell’opera nel mondo. Allora quell’evento plastico identificabile con la scultura divenuta oggetto-matrice statico non rappresenta il fine ultimo, ma è nella traccia, vettore portatore della geometria della traduzione, nel tragitto che si compie non da un linguaggio a un altro bensì all’interno di un unico linguaggio, che si ultima il senso pieno del percorso e il suo fine. Il progetto di muovere la staticità e l’inerzia della materia ha trovato nelle opere di Annalù, siano esse site specific e time specific, lo sviluppo con l’agire in senso proprio, con l’imprimere il movimento a una scultura matrice, una scultura potente e indipendente che lascia una scia di appartenenza per movimentarsi nomade all’interno del domicilio senza casa e universale dell’arte.

  1. Max Horkhmeier, Theodorn AdornoDialettica dell’illuminismo, Introduzione di Carlo Galli, Traduzione di Renato Solmi, Biblioteca Einaudi, 1997
  2. Nicolas Bourriaud, Pour une estetique de la globalisation, 2009, Il Radicante. Per un’estetica della globalizzazione, Postmedia Srl, Milano, 2014, traduzione di Marco Enrico Giacomelli
  3. Maurice Merleau-PontyLe visible et l’invisible, Gallimard, 1964.

Estratto dal testo di Annalù 1994/2014 – Monografia – Silvana Editoriale a cura di M.Cavallarin