CRITICA DI IVAN QUARONI (2011)Le Voyage imaginaire

“Annalù appartiene a quel genere di artisti per i quali il dominio della materia, della chimica, delle sostanze fisiche, è parte integrante di un più ampio processo di esplorazione.”

“Della vaporizzazione e
della concentrazione dell’Io.
Tutto sta lì.”
(Charles Baudelaire)

 

La definizione del rapporto dell’arte con la natura è un tema secolare, fondato su modelli per lo più imitativi. L’arte, però, può osservare la natura in molti modi. Il modo più semplice e immediato, è quello della trascrizione morfologica, della verosimiglianza ottica, come nel caso di un dipinto che ripropone fedelmente un paesaggio o uno spaccato di vita.

Un altro modo, più sottile è quello in cui l’imitazione concerne il modo, più che la forma, diciamo pure le regole e le strutture che presiedono al suo ordinamento. L’alchimia, come disciplina, appartiene a questo genere di imitatio. Lo ricordava Alessandro Riva in una sua lettura del lavoro di Annalù [1], dove indicava l’Opus magnum come un percorso di conoscenza del sé e dunque, per estensione, del mondo stesso.

La ricerca artistica di Annalù segue, precisamente, un iter gnoseologico, che procede dai fondamenti della materia – ossia da quegli elementi vitali che Empedocle definiva rizòmata (“radici”) di tutte le cose – per giungere, infine, alla comprensione della grandezza spettacolare dei fenomeni naturali. Annalù appartiene a quel genere di artisti per i quali il dominio della materia, della chimica, delle sostanze fisiche, è parte integrante di un più ampio processo di esplorazione, che coinvolge certamente l’arte, ma anche le dimensioni più impalpabili dello spirito.

Annaluigia Boeretto, questo il suo nome per esteso, non è, quindi, un’artista di mimesi, di ricalco, ma piuttosto una discepola della metamorfosi, intenta a penetrare i misteri della creazione. Tommaso D’Aquino nel suo trattato sull’Alchimia [2] designava questa disciplina “De modo amalgamandi”, ovverossia un procedimento che consiste nel mescolare e fondere le diverse virtù della materia, al fine di comprendere i processi generativi della natura, nei quali era inteso che si specchiassero, secondo la Scolastica, i principi della creazione divina.

Quell’“ossimoro di materiali”, cui accennava Riva nel succitato testo, alludendo alla capacità dell’artista di assemblare elementi incongruenti come resine, cortecce e lana di vetro, è dunque il frutto di un particolare ingegno pratico, unito a una vivida curiosità intellettuale. L’artista esplora il mondo delle sostanze sublunari dominato dai flussi di crescita e proliferazione, con la stessa attitudine dell’apprendista stregone, dedito al difficile compito di ricavare, come dicevano i latini, e pluribus unum (dalla moltitudine, l’unità). Nel suo modus operandi emerge una certa fascinazione per il caos, per la massa informe, da ricondurre, tuttavia, alla forma ordinata dell’oggetto. Lei stessa afferma, infatti, che le sue opere costituiscono il racconto di “una materia primordiale (caos), che plasmandosi si serve anche dell’elemento casuale (caso) per divenire, attraverso il suo controllo successivo, cosa, ossia opera, forma nuova”.

Anagrammando il termine “caos” si ottengono i vocaboli “caso” e “cosa”. Ponendo i tre termini lungo una linea temporale progressiva, avremo la sequenza “caos-caso-cosa”, che, di fatto, ci riporta al contenuto della massima e pluribus unum, sublime sintesi del processo creativo, ma anche documento programmatico di un certo modo di intendere l’arte. Da qui parte il viaggio immaginario di Annalù, propriamente dalla realtà tangibile degli elementi e delle sostanze organiche, dalla loro mescolanza, metamorfosi e trasmutazione per opera di quella mirabile forma di alchimia che chiamiamo “immaginazione”. Un’immaginazione analitica, che le ha permesso, fin qui, di comprendere i meccanismi di crescita e dissoluzione che governano le mirabilia naturali, talora decifrando i misteri dell’acqua, talaltra penetrando l’affascinante microcosmo dei lepidotteri, ma con quell’attitudine capace di compendiare l’osservazione dei fatti con la metafora e l’allegoria.

In questa nuova tappa del pellegrinaggio dell’artista, la natura assume forme più complesse, si organizza in configurazioni geografiche precise, più specificamente in frammenti di paesaggio, in un ipotetico conglomerato d’isole fantastiche. La terra, già evocata simbolicamente nei lavori precedenti attraverso l’uso di sabbia, radici e le cortecce d’albero, si trasforma ora in territorio. Soprattutto nelle Isole FloreAli, gli elementi della stoichea platonica (aria, acqua, terra e fuoco) appaiono fusi in nuove entità, in microcosmi autonomi e in architetture organiche, ognuno delle quali sprigiona una diversa temperie emotiva, fedelmente trascritta nella propria morfologia. Fukinagashi, isola che trae il nome da un particolare stile di coltivazione dei bonsai che replica l’effetto delle chiome degli alberi quando sono battute da un forte vento, è un tributo alla forza impetuosa degli elementi, una sorta di trascrizione dell’epos preromantico.

È puro sturm und drang in salsa zen. Paideia, al contrario, canta il distacco dalle passioni, evoca i piaceri della contemplazione, simboleggiati dalla sedia, punto privilegiato d’osservazione. Qualcosa di analogo accade in Seduta ai margini dell’onda, dove alla sedia si sostituisce una panchina, ultimo rifugio degli emarginati, e dove, , in continuità con le opere precedenti, ritorna prepotentemente l’elemento metamorfico dell’acqua. Le materie prime di cui sono fatte queste Isole FloreAli sono, ancora una volta, resine, sabbie, radici, ma anche carte, inchiostri e perfino tessuti. Questi ultimi, sperimentati nella recente collaborazione con la stilista Lavinia Turra, formano la struttura portante di opere come Il sogno del bosco sospeso… e ancora primavera e Della pioggia che danza. In questi e in altri lavori, osservando il principio di verosimiglianza, Annalù usa scampoli di seta fissati con la resina per riprodurre le crepe e i corrugamenti della terra. Una terra attraversata da una fitta trama di rizomi che si estendono, come tentacoli, ben oltre i limiti consentiti. La proliferazione radicale, con le sue proprietà leganti e stringenti, è parte della grammatica imitativa dell’artista, da sempre attenta ai fenomeni di propagazione, replicazione e accrescimento organici della natura. Non è un caso che l’albero, con tutte le sue implicazioni simboliche e totemiche, sia l’elemento centrale e dominante di questi microcosmi, axis mundi intorno a cui si aggruma e si condensa la profusione vitale e vegetativa, ben rappresentata dal fogliame frammisto a turbe di farfalle. Sorta di Axis mundi, simile a un’alta e ripida vetta è anche l’isola intitolata Una torre dei venti, ispirata al mitico horologion ateniese, un edificio ottagonale in marmo pentelico dedicato al culto di Nettuno.

Svettante come un colossale megalite è, invece, l’erta scoscesa, di …Tu eri chiaro e trasparente come me, dominata da un clima di caligine infernale di Böckliniana memoria. Dilavata dal riflusso di un’anomala onda di greggio, questa è forse la più malinconica delle opere di Annalù. Non è tanto la nota romantica dell’altalena solitaria (posta in una cavità ai piedi del monte) ad alimentare l’atmosfera “persa” del luogo, ma piuttosto la dominante cromatica, che sembra alludere alla putrefactio alchemica e, dunque, alla dissoluzione degli elementi e alla formazione di un composto simile alla pece, al carbone, al sale bruciato e al piombo fuso.

È il primo gradino della Grande Opera, quello che, ponendo mente a Dürer, getta il discepolo nello sconforto dell’umor malinconico. Nel processo creativo, esso corrisponde al Caos, alla materia indifferenziata che Annalù intende dominare, anche con il contributo del Caso, per raggiungere il lapis philosophorum, l’oggetto, il composto ordinato, la Cosa. Istantanee di una fase del processo creativo sono le Mappe, che appunto registrano l’attimo in cui il magma indifferenziato della materia prende forma, corpo e disegno con una precisione quasi sismografica. Si tratta di tessuti serici, cui l’artista offre una conformazione plastica, increspata e corrugata come quella di certe topografie a rilievo. Sopra, tracciati a sottili linee d’inchiostro, si delineano gemme floreali e virgulti arborei. Sembrano, a tutti gli effetti, lande innevate viste a volo d’uccello, piste calpestabili, percorribili. Torna, qui, l’idea del viaggio immaginario, già preconizzato nelle Isole FloreAli, simili a mobili zolle natanti.

L’idea di navigazione è il fil rouge che collega le mappe e le isole, il mare e la terraferma, come dimostra l’emblematico omaggio a Magritte, un’impalpabile figura acquea in forma di veliero. S’intitola Viaggio Interiore e ci riporta ancora, e inevitabilmente, all’Opus Magnum e quel famoso acrostico, VITRIOL [3], che simboleggia la discesa nelle profondità dello spirito umano. D’altronde, come ha scritto Tarkovskij , “c’è un solo viaggio possibile: quello che facciamo nel nostro mondo interiore”.

1. Alessandro Riva, Immagini d’acqua, mito e rêverie, in Annalù. Acqua, catalogo della mostra omonima, Wannabee Gallery, 2010, Milano.
2. Tractatus D. Thomae de Aquino datus fratri Reinaldo in arte Alchemiae, Newton Compton, 1996, Roma.
3. Visita Interiorae Terrae Rectificando Inveniens Occultum Lapidem.

Estratto dal testo del catalogo della mostra Personale“ Le voyage immaginarie” a cura di Ivan Quaroni. Wannabee Gallery, Milano, 2011.